Non un forno qualunque: dalla visione al progetto "Forno solidale” Panificazione in carcere come progetto di reinserimento sociale. E' stata questa la finalità del progetto "Forno Solidale” che è nato dopo anni di formazione dei detenuti con il maestro panificatore Andrea Pioppi e che ha prodotto un'ampia gamma di prodotti da forno, dal pane con lievito madre alla pasticceria più elaborata. Il forno della Casa circondariale di Terni non è stato un forno qualunque. Prima di tutto è nato da una visione, resa possibile dal coraggio e dalla generosità di chi ci ha creduto. Poi è diventato un progetto di inserimento sociale e lavorativo per quanti, da dietro le sbarre, hanno saputo coglierne l'opportunità. Vi si realizzano solo cose buone come l'idea di un carcere che non affligge, ma anzi forma e produce, e incoraggia la possibilità di un lavoro per ricominciare, la scommessa in una società migliore. Andrea Pioppi, nella sua esperienza di maestro d'arte bianca all'interno di un istituto penitenziario, non insegna solo un mestiere, ma un metodo di lavoro che queste persone portano fuori da questo luogo.
Lavorare per riparare, con vantaggi per tutti Perché se la pena viene spesa bene, gli effetti e le ricadute sociali sono evidenti e a vantaggio di tutti: la percentuale di ex detenuti che tornano a delinquere una volta tornati in libertà, infatti, crolla dal 90 per cento al 15 per cento. Il lavoro è lo strumento più importante che abbiamo a disposizione per abbattere la recidiva. Il lavoro vero restituisce la dignità di persone. E sono tantissimi i detenuti che hanno avuto l'opportunità di seguire le lezioni di Andrea, non solo nell'istituto di pena di Terni ma anche presso la Casa circondariale di Perugia dotata di un moderno e attrezzato laboratorio di cucina. Lavorare per riparare, insegnare per far crescere le persone, amare per educare: questo è l'impegno e il punto di partenza di Andrea Pioppi nel suo viaggio all'interno del carcere.
Sfornare pizza e biscotti in una scuola che profuma di verità Quelli seduti in aula ad ascoltare e a mettere in pratica le sue lezioni sono alunni un po' particolari: la giustizia li ha dichiarati colpevoli, la società li ha mandati in esilio nel carcere-gulag, i corsi di formazione e l'impegno lavorativo tentano di rimettere in moto i loro passi alla ricerca di un'esistenza perduta. L'unica "scuola” in cui l'anagrafe e i lineamenti tradiscono palesemente anche l'occhio più esperto: qui a cinquant'anni potresti rimetterti ad imparare a sfornare pizza e biscotti, a settant'anni imbatterti per la prima volta nella "quiche lorraine”. O imparare sulla soglia della vecchiaia a lavare e a rimettere in ordine tutti gli utensili al termine della lezione. Quella in carcere è una scuola che può sembrare strana, ma profuma di verità: nessuno è mai così sazio di giorni e carico di anni da non poter far fare un passo in più alla sua dignità.
Le parole come terapia per l’anima In carcere le parole sono una specie di terapia: saperle usare permette di iniziare l'unica forma di rieducazione possibile, quella di chi affina le armi per auto-educarsi e arrivare laddove la Legge e il Codice falliscono. Qualcuno di loro, la maggioranza, entra sconclusionato nei pensieri e se ne esce semplicemente con il felice sospetto di essere diventato un uomo migliore attraverso la fatica dell'impegno profuso nelle attività formative e lavorative. A scommettere sulla loro riuscita sono in tanti: insegnanti disponibilissimi come Andrea, appassionati dell'uomo prima che della materia. D'altronde poche risurrezioni sorpassano lo stupore di scorgere nel volto di vecchi rapinatori la meraviglia di sfornare una fragrante pizza dal forno del carcere. La vera sfida rimane quella di insegnare a ricercare modi sempre meno banali per accendere l'avventura dell'esistenza umana. Perché in carcere il sapere anticipa sempre di qualche attimo il profumo della libertà.
Insegnare in carcere… "Insegnare in carcere – afferma Andrea Pioppi – è qualcosa di bellissimo e gratificante sotto molteplici aspetti. Le motivazioni profonde di questa esperienza restano sepolte dentro l'anima, dentro la mente. E' una specie di palestra interiore che costa fatica, ma può dare anche un insolito piacere. Le pressioni è impossibile non viverle profondamente, ma cerco di tenere a bada l'emotività, perché se diventa troppo invadente, ti impedisce di lavorare. Le ore di lezione credo che rappresentino per i detenuti una sospensione dal caos ininterrotto delle venti ore di cella quotidiane. Per qualcuno di loro si tratta veramente di un progetto chiaro di riscatto e riabilitazione sociale. Io conserverò sempre nel mio cuore un bellissimo ricordo di ciascuno di loro”.